Graffiti : inciviltà, semiologia e bellezza

di SILVIA TRUZZI
Una volta Enrico Brizzi mi ha detto: «Da quando ho cominciato a pagare il condominio, ho capito perché alla gente danno fastidio i graffiti».

Si cresce, si dirà. E perfortuna. Invece non c'entrano nè il diventare grandi, nè il capire o non capire l'arte e nemmeno la presunta trasgressione del gesto.
A rebours. Abbiamo sempre avuto bisogno di lasciare segni: i primi graffiti risalgono all'homo sapiens.

Erano incisioni rupestri, vicino ai pascoli o agli alpeggi: disegni di animali e scene di caccia. Cambiano forme, contenuti e modi, ma il senso è lo stesso di tags e scritte sulle colonne (e non ci vuole un raffinato semiologo): il bisogno di testimoniare se stessi.

Però a Bologna sembra essere una necessità ormai pandemica, una malattia che assale la gente con frequenza preoccupante: non tutte le città sono così mortificate come questa.

Bisognerebbe capire perché proprio qui, proprio così: se è un effetto che a che vedere con l'emulazione ( à la «broken windows», per intendersi) o con la presenza di molti giovani.

Da un comportamento sbagliato a un'abitudine incivile: qui (molto più di quanto non capiti a Milano, per dire) succede spesso che le persone scambino i vicoli per vespasiani, trasformandoli in cessi nel senso più letterale - e anche lato - della parola.

Non è che non ci siano posti dove fare pipì. Non è che non ci siano modi altri dallo scrivere sui muri per rivelarsi al mondo. E' il sentimento della cosa pubblica, percepita come luogo dove si può fare qualunque cosa, proprio perché di tutti.

Ma non vale l'equazione «di tutti, quindi di nessuno».

Piuttosto, dovrebbe, «di tutti, quindi in comproprietà».

Immagino che un sedicenne alla sola parola «degrado» avverta un'immediata sensazione di nausea. E a ragione: se ne abusa, nel discorso politico, per indicare tutto quello che non va con un lessico vecchio, logoro, senza più contenuti reali. Ed è la favola di Pierino e il lupo.
Quindi? Pulire, certo.

Da qualche parte bisogna pur cominciare. Ma è un'aspirina.

Il senso civico parte dal sentimento di appartenenza a una comunità, si salda grazie all'identificazione dell'individuo con un insieme più ampio di persone e al radicamento in un territorio. Passa per il rispetto delle regole, naturalmente: ma non funziona il «sorvegliare e pulire» che è stato invocato in una storpiatura inutilmente maldestra di Michel Foucault.

La comprensione del bello viene in aiuto (ed è un sentimento che può essere insegnato): Bologna è straricca di meraviglie di cui nutrirsi.
È un gran vantaggio: può sempre capitare di nascere a Garbagnate.
E' il sentimento della cosa pubblica, percepita come luogo dove si può fare qualunque cosa, proprio perché di tutti

fonte:corriere di bologna

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